di Franco Cortese
Nonostante la società consumistica, con la
frenesia che la caratterizza, abbia calpestato irrimediabilmente molti usi e
tradizioni, un tempo stimoli vivificanti di una cultura popolare sana ed
alimentatrice, il Natale a Pizzo ha conservato lo spirito di sempre. Il
Pizzitano ama trascorrere il periodo natalizio in famiglia festeggiando nei
modi più tradizionali la nascità di Gesù e ritornando per molti atteggiamenti,
alle cose genuine di un tempo. Per tutto il periodo che porta dalla festa
dell’Immacolata, celebrata l’otto dicembre, all’Epifania, ci si muove in un’aria
magica, ricca di note poetiche e suggestive rasserenate dalle dolci melodie dei
zampognari delle Serre. Dura quasi un mese l’atmosfera natalizia poiché la
chiesa solennizza in dicembre parecchie feste con una liturgia varia che include
la partecipazione di zampogne e bande musicali. Nella casa vi è una frizzante
allegria profusa dal mistico presepe francescano e dal nordico albero,
riccamente imbandito di doni e luccicante per le multicolori palline in
stagnola. Tra le usanze andate perdute forse la più bella era quella della
novena natalizia. Nove giorni prima della “notte santa”, le zampogne iniziavano
i loro giri notturni per le strade della città suonando dolci melodie che
sapevano di mistero e di magia. Allora si aspettava con ansia il loro passaggio
ed i figli raccomandavano i genitori di stare all’erta nella notte, percepire
in tempo la soave musica in avvicinamento e svegliare subito tutta la famiglia
affinché gustasse quegli attimi emozionanti. Quasi in concorrenza alle
zampogne, seguiva la banda musicale che riproponeva le stesse musiche natalizie
della “ceramella” ma che in tutta onestà ne perdeva il confronto se non sul
piano musicale certamente su quello del fascino. Quando il giorno di Natale,
nelle case bussavano i zampognari, li si accoglieva a braccia aperte e nel
rispetto di un antico rituale li si faceva sedere innanzi ad una tavola
imbandita solo per loro, considerati espressione essenziale della festa. I
giorni che precedevano “l’Avvento” erano dedicati, e lo sono in parte tutt’oggi,
alla gastronomia particolare di questi periodi. Un tempo si usava friggere di
notte multiformi dolci casarecci o fritti di farina e paste di patate: erano i
zippuli, monaceji, chinuliji, ravioli al vino cotto o miele, pittapiji ripieni
di uva passa, ‘mbignolata o cicerata al miele, tutte leccornie tipiche che
resistono alla concorrenza della moderna e sofisticata pasticceria. Infatti
ancora oggi questi fritti sono gli alfieri dei cenoni che si consumano la sera
che precede la “notte santa” e vigilia di Capodanno, preparati solitamente nei
menù tradizionali che comprendono almeno tredici piatti diversi. La vigilia di
Natale non si può fare uso della carne poiché il banchetto dev’essere
essenzialmente magro.
I giochi preferiti rimangono le carte e la
tombola anche se la gioventù preferisce sempre più frequentare sale da ballo o
andare a spasso con gli amici in cerca di nuove esperienze a volte riprovevoli.
Nessun problema per i doni che si scambiano a
vicenda con facilità mentre un tempo la strenna si questuava in altro modo. Nel
pomeriggio di San Silvestro i bimbi andavano per le case trasportando a spalla
una pietra ed all’apparire del padrone dell’abitazione cantavano cosi: “bonu,
bonu capudannu, sutta u lettu ‘nge nu nannu, appicciati u candileri, ca moriu
lu ziu micheli”. E bisognava dare loro dolci e frutta secca in regalo
altrimenti ti lasciavano sull’uscio la pietra augurandoti cosi un cattivo anno
nuovo.